“Radici, non riflettori: la vera sfida di Agrigento Capitale della Cultura”
Già vent’anni prima dell’arrivo di Goethe, Agrigento aveva incantato il barone Von Riedesel che, nel 1767, ospite del convento degli Agostiniani, scrisse: “Questo è il paradiso, qui vorrei vivere”. Oggi, con il titolo altisonante di Capitale Italiana della Cultura 2025, la città continua a far parlare di sé, ma per ragioni ben diverse.
A parlarcene è stato Giovanni Taglialavoro, sabato 1° agosto, in occasione della premiazione del 17° concorso fotografico organizzato da Agrigento Oggi. Nel chiostro del Palazzo Comunale, Taglialavoro ha ricevuto il premio “Orgoglio Siciliano oltre confine”. Un giornalista d’altri tempi, formatosi a Teleacras, affermato autore televisivo e figura di riferimento nel giornalismo italiano.
Nel corso della serata si è svolto un dibattito con Domenico Vecchio, direttore di Agrigento Oggi, durante il quale Taglialavoro ha denunciato con forza un’evidente contraddizione: “Siamo seduti su un pozzo di petrolio straordinario. La lista delle risorse culturali di cui disponiamo – spiega – è lunga: Pirandello, Sciascia, la Valle dei Templi, una storia millenaria, una lingua, una bellezza da mozzare il fiato”.
Eppure, sottolinea, “non si è dato spazio alle eccellenze nostrane. La cultura è stata importata come un prodotto preconfezionato, ospitata più che costruita, con poca o nessuna traccia di sicilianità, senza quell’espressione autentica e profonda che avrebbe dovuto essere il cuore pulsante di una vera Capitale della Cultura”.
In uno dei passaggi significativi del suo intervento, il giornalista ha richiamato la figura dell’architetto gesuita Angelo Italia, chiamato nel 1693 a ricostruire Noto dopo il devastante terremoto. La prima cosa che decise di progettare fu la chiesa, non perché non necessitassero case o strade, ma perché da lì, da un luogo simbolico e condiviso, nasce l’identità collettiva. E senza identità non si ricostruisce nulla. Né una città, né tantomeno una comunità.
Un’identità che è sfuggita di mano a chi avrebbe dovuto custodirla, valorizzarla, farne un punto di forza e non solo uno slogan. Oggi sembra che basti allestire un palco, organizzare un evento ben confezionato, accendere le luci e scattare qualche foto per convincersi di aver fatto cultura. Ma una volta chiuso il sipario resta poco o nulla. Nessuna traccia e nessuna eredità.
Ecco perché – ha insistito Taglialavoro – non serve l’ennesima rassegna effimera, ma un laboratorio permanente, un luogo in cui la cultura non sia solo spettacolo da consumare, ma esercizio di pensiero.
Taglialavoro chiude il suo intervento con un’idea semplice ma rivoluzionaria: “non si tratta di vincere un titolo, ma di costruire un futuro. Solo quando saremo in grado di innestare gli eventi su un humus culturale autentico, vivo e condiviso dal territorio, solo allora – afferma – potremo davvero dire di aver vinto.”
E mentre dialoga con Domenico Vecchio, viene naturale il richiamo ai viaggiatori del Grand Tour che qui arrivavano in carrozza, visitavano i luoghi, prendevano appunti e poi scrivevano che Agrigento era un luogo dell’anima.
Oggi Agrigento non chiede celebrazioni, ma riconoscimento e centralità, per tornare a immaginare un futuro con radici profonde
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